Morto il circo, viva il circo
È tornata la meraviglia
Gioia pura alla Festa internazionale di Brescia
ANTONIO SCURATI
Deve trascorrere un attimo perché il pubblico applauda. La sorpresa è tale che l’applauso scoppia in ritardo: il giovane uomo che fino a un secondo fa stava fermo in piedi davanti a noi, verticale rispetto al suolo e ben piantato a terra come la pertica che aveva di fronte, ora, un secondo più tardi, è ancora perfettamente verticale rispetto al suolo ma sospeso a un metro da esso. Si regge con due mani alla pertica, apparentemente senza il minimo sforzo, eppure non l’abbraccia, ne rimane anzi ben distante, ben distinto. Non l’ho nemmeno visto saltare. È come se, d’improvviso, il ragazzo fosse levitato e ora se ne stesse lì a mezz’aria, legato a quel palo eppure libero, legato come una bandiera gonfia di vento al suo pennone davanti ai nostri occhi, l’acrobata sventola se stesso, veleggia in una corrente invisibile, sottratta alle leggi di gravità, in una regione separata dell’essere, non sottoposta alle leggi che governano l’affannosa esistenza di noi comuni mortali. E noi comuni mortali applaudiamo il miracolo, ma con un attimo di ritardo. In quegli istanti di sospensione è racchiuso il significato recondito della meraviglia, il dono dell’inatteso lungamente atteso. Siamo in una magia senza tempo, in uno dei luoghi da sempre deputati alla fantasmagoria. Siamo in una vibrazione sorda e arcana della terra, in un mito. Siamo al circo.
Il gesto di levitazione appena descritto, avvia, infatti, il numero conclusivo di uno dei più begli spettacoli offerti dalla Festa Internazionale del Circo Contemporaneo, una rassegna ideata e diretta da Gigi Cristoforetti, giunta oramai all’ottava edizione, che si svolge tra giugno e luglio a Brescia. Il ragazzo che si appresta a compiere strabilianti evoluzioni attorno a quel palo si chiama João e fa parte della compagnia Le Cheptel Aleikoum. La sua esibizione suggella degnamente un percorso all’aperto nel castello di Brescia, una sorta di Via crucis alla rovescia, un itinerario in più tappe che, di stazione in stazione, di performance in performance, conduce il pubblico verso la trascendenza di una gioia pura, propriamente infantile (una trascendenza di cui soltanto gli adulti sono capaci), verso un entusiasmo che si prova dinnanzi alle cose di un altro mondo quando appaiono in questo mondo, le cose sospese a mezz’aria tra cielo e terra, come lo è João afferrato alla sua pertica.
Il circo è stato a lungo uno dei luoghi centrali per l’immaginario della contemporaneità, e anche una delle fonti principali a cui ha attinto la creatività artistica del Novecento (si pensi solo a quanto gli devono il teatro e il cinema). Difficile raccontarlo ancora. Rimane da chiedersi che cosa rimane. Che cosa rimane al nouveau cirque attuale del vecchio circo che per due secoli ha fornito a legioni di adulti e bambini, una generazione dopo l’altra, l’occasione di una celestiale eppure profana redenzione dalla grave fatica di vivere? Che cosa rimane oggi di quella formidabile macchina mitologica che fu lo spettacolo di saltimbanchi, funamboli e giocolieri, confinati al principio dell’Ottocento dentro un tendone dall’ordine sociale borghese che non li voleva più disseminati nelle strade e nelle piazze a diffondere la sovversione di uno spirito carnevalesco, di un soffio di ebbra gioia neopagana, che cosa ne rimane ora che sono spariti gli animali – i leoni, le tigri, gli elefanti – le figure in cui s’incarnava lo stupore primigenio dinnanzi all’apparire del sacro, ora che la vocazione artistica del circo si fa più esplicita, ma a discapito della vitalità incontenibile nelle forme dell’arte, ora che lo splendore acrobatico dei corpi piega sempre più verso le raffinatezze della danza, ora che la drammaturgia semplice e archetipica dei rapporti tra uomini forzuti e donne minuscole, angeli volanti e buffoni demoniaci, si complica in sottili partiture teatrali, che cosa rimane dell’estasi, di quella pienezza giubilante del cuore che passa attraverso una pienezza mirabolante degli occhi? Che cosa rimane del più grande spettacolo del mondo nella società dello spettacolo? Rimane l’essenziale. E la meraviglia si rinnova.
Per capirlo basta osservare la corrente d’incandescenza erotica che investe i corpi degli spettatori all’apparire di una coppia d’acrobati, belli e sensuali come divinità silvane, lui satiro, lei ninfa, allacciati in figure acrobatiche che meglio di qualsiasi tango coreografano la danza sessuale basta osservare la simpatia del pubblico verso l’eterna malinconia del clown quando, al culmine dello spettacolo Sang et or, realizzato dalla compagnia Zanzibar su una drammaturgia di Benno Besson, un uomo goffo e minuscolo, reincarnazione degli antichi giullari nani, esegue la travolgente pantomima che lo porta a trasformarsi in un terribile e gigantesco King Kong bersagliato da aeroplanini di carta lanciati dai bambini. Ma, più d’ogni altra cosa, per capire il rinnovarsi della meraviglia circense bisogna smettere di osservare e abbandonarsi all’onda travolgente dell’entusiasmo.
Per l’intera durata dello spettacolo, il pubblico non smette mai di incitare, applaudire, esultare. Nella notte estiva, il piccolo chapiteau della compagnia Zanzibar si trasforma in un centro sacro della città, pulsante di gioia corale. Nemmeno il vicino stadio di calcio è mai arrivato a tanto. Voltandosi indietro a guardare quel tendone variopinto, quella costruzione nomadica, appare chiaro che protegge un luogo di raccoglimento, non di evasione. È una piccola chiesa il tendone del circo, una pieve di campagna, dove si celebrano i riti comunitari di una religiosità profondamente terrena, dove nessuno dimentica la fatica che costa eppure s’innalzano canti di giubilo per il dono di stare al mondo.
Non a caso, finito lo spettacolo, ci si accorge che la trapezista, la donna volante apparsa divina e irraggiungibile mentre ti volteggiava sopra la testa, ora ti serve la birra dietro il banco di un bar improvvisato.
Da www.lastampa.it del 06/07/07
06/07/2007 23.05.37
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