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Prendere gli schiaffi, o anche “Un circo senza segatura

da loschermo.it

A Lucca si dice “manata”, “stiaffo” ma anche “ciaffata”. L’etimo di questo termine piuttosto popolare (schiaffo, appunto), ha in realtà origini illustri, riconducibili a Plauto (uno che di teatro qualcosina sapeva) fino ad arrivare alla lingua sumera, dove ALAPA – poi schiaffo in latino – indicava con PA il luogo fisico (la guancia) che riceveva il “colpo d’ala” noto anche come “manrovescio”. Come dire, lo schiaffo è sempre una sorta di “passo a due” o, per dirla con Rodrigo Garcia (che in realtà preferisce il bastone alle mani), una sorta di primordiale dialogo. Dare e ricevere schiaffi risulta dunque – almeno dal punta linguistico – una faccenda piuttosto complessa.

“Quello che prende gli schiaffi” diventa al Teatro del Giglio il titolo di una commedia tragica che Glauco Mauri dirige, interpreta e adatta dal testo omonimo di Leonid Nikolaevic Andreev, scrittore, saggista e drammaturgo russo appartenente a quella cultura espressionista figlia della Rivoluzione d’Ottobre datata 1905. Il testo, ormai quasi centenario poiché scritto nel 1915, offre al Glauco Nazionale l’occasione per condividere insieme a Roberto Sturno una riflessione sullo sfavillante ma crudele mondo  del teatro, ma anche sul prezzo delle scelte che possono rendere libere le persone. Si narra la vicenda di uno spettatore senza nome  che decide di unirsi alla compagnia di Papà Briquet, capocomico circense in tuba e lustrini,  proponendosi come clown specializzato nel “prendere gli schiaffi”, data la grande esperienza maturata nella vita reale che decide di abbandonare.

Quasi due ore di spettacolo con intervallo, come si usa in un certo tipo di prosa “tradizionale” che, ad oggi, si ostina ad ignorare (forse a torto, forse a ragione) quei tempi di fruizione più contratti, certo più familiari ad un pubblico ormai assuefatto alla magia del montaggio cinematografico e (ottusamente) devoto al fulmineo avvicendarsi degli spot televisivi due ore che evocano visioni dense di richiami Felliniani e che inoculano nello spettatore un bel po’ di nostalgia nei confronti di quell’ambiente circense tipico dell’est a cui ormai le famiglie Orfei e Togni tentano di rifarsi difendendo la propria tradizione e cercando di sopravvivere alle asettiche  piste dei circhi  televisivi e alle bordate degli animalisti che esigono oggi tendoni colorati ma senza l’impiego di tigri, leoni e bestie che non siano umane.

La composizione, elegante e misurata, si avvale per i movimenti scenici della consulenza di Michele Monetta, uno dei più grandi maestri di mimo operanti nel nostro paese, mentre i costumi di Odette Nicoletti – malinconicamente sgargianti – si sposano efficacemente con la scena curata da Mauro Carosi, vuota ed  essenziale ma sempre pervasa di una luce che ricorda – a tratti – l’aurora boreale.

Gli attori della compagnia svolgono bene il proprio compito menzione particolare ai tre clown (Polly – Leonardo Aloi, Jacky – Stefano Sartore, Tilly – Roberto Palermo), contrappunto coreutico che ben bilancia il peso specifico dei personaggi principali della storia. Le due figure femminili, Mara e Leda, riescono ad incarnare perfettamente il ridotto immaginario maschile grazie alle dissonanti fisicità delle due attrici, Barbara Begala (conturbante e disillusa domatrice di leoni con frusta e guepière) e Lucia Nicolini (leggiadra ballerina muta che non sfigurerebbe a fianco del classico soldatino di piombo con una gamba sola) risultano forse un po’ verbosi alcuni passaggi drammaturgici (sempre ottimamente solfeggiati, dato il calibro dei due interpreti)  destinati a Papà Briquet (Glauco Mauri) e al clown “Quello” (Roberto Sturno), colonne portanti della vicenda a cui la regia delega una sorta di “missione moralizzatrice” appena appena fuori moda.

Si ha infatti la sensazione che alcuni concetti espressi rispetto alla tristezza del clown o alla spietata legge che fa dell’attore un capro espiatorio in grado di dire o di fare  ciò che  i cosiddetti “normali” non riescono  quotidianamente ad esprimere, siano  ormai abbastanza familiari ad un pubblico che dista cento anni dal debutto dell’opera e che ha conosciuto e digerito comicità malinconiche come Chaplin, Stan Laurel, Buster Keaton, Jerry Lewis, ma anche Sergio Tofano, Totò,  Paolo Panelli, Alighiero Noschese e Massimo Troisi.

Il trio dei cattivi Marco Bianchi ( l’arido Conte Mancini, padre di Leda, la ballerina muta), Mauro Mandolini (il laido Barone Regnard) e Paolo Benvenuto Vezzoso ( “Un Signore” nerovestito) contaminano efficacemente lo sgargiante e fiabesco mondo di Papà Briquet come  porri sulle mani di un prestigiatore senza guanti, intrecciando alla riflessione meta-teatrale una vicenda di amore giovanile contrastato in classico stile Molière ma con finale Shakespeariano. Sfortunato in proposito l’attore David Paryla che – interpretando l’inesperto e pavido acrobata che rinuncia all’amore per paura dell’amore stesso – resta schiavo di un ruolo che non offre possibilità di sfumature emotive, tutte assorbite da “Quello che prende gli schiaffi” e poi restituite garbatamente  a Papà Goriot che – con mestiere ed eleganza– ci accompagna verso gli applausi misurati ma onesti di un pubblico che sembra apprezzare lo spettacolo più per la storia della compagnia Mauri/Sturno (che celebra i trent’anni di attività) piuttosto che per empatia con la vicenda inventata da fiòdor Andreèv. E’ parere di chi scrive che, un allestimento analogo senza nomi importanti, avrebbe ottenuto consensi ben più tiepidi.

In definitiva, se avete voglia di essere schiaffeggiati (con delicatezza) e non soffrite di coulrofobia (la paura insensata nei confronti dei pagliacci), se non avete ancora letto il libro di Heinrich Boll (“Memorie di un clown”, più un cazzotto alla bocca dello stomaco che uno schiaffo, in effetti), date un’occhiata a questo spettacolo un po’ vintage ma molto ben confezionato. Potrebbe venirvi voglia di fare un salto al circo Orfei – a Lucca in questi giorni, dove le domatrici non sono affascinanti come Mara e ovunque si sente il puzzo di segatura misto al letame degli animali e al profumo di popcorn – e magari di farvi fare una foto mentre tenete in braccio un cucciolo di tigre come capitava quando eravamo figli.

Anche quelli – come si dice a Lucca – sono stiaffi.

06/03/2012 11.52.03

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