Nell’arte di far piangere Viviani conduce, Arias arranca
da teatro.org
Il circo, un mondo tragico, emblema della fragilità, esposto ai capricci della pioggia, del vento e del pubblico pagante, è il terreno comune su cui si muovono Raffaele Viviani e il regista Alfredo Arias, sebbene entrambi si siano accostati ad esso con modalità completamente differenti.
Circo equestre Sgueglia, scritto nel 1922, ripercorre attraverso le vicende di una sgangherata compagnia circense, la terribile esperienza che l’appena dodicenne Viviani dovette affrontare in seguito alla morte del padre, che fece precipitare rapidamente la propria famiglia in condizioni di insostenibile povertà. Ingaggiato da un impresario di giostre e numeri di circo, tale Don Ciccio Scritto, come Don Nicola nella Zeza, una specie di zarzuela carnevalesca con Pulcinella e Colombina, ricominciava dal più infimo livello dell’arte teatrale, lavorando anche per tredici ore al giorno per pochi spiccioli, dopo aver conosciuto nei primissimi anni della sua vita, una fulminante celebrità come bambino prodigio.
Molto meno traumatico e di matrice più poetica l’approccio al circo del regista argentino, naturalizzato francese. Come egli stesso dichiara:
“Davanti alla casa in cui abitavo con i miei genitori, si estendeva un terreno vago quanto infinito. In questo spazio abbandonato da tutti e soggetto alle intemperie, un giorno è arrivato un circo molto povero, che non aveva nemmeno il tendone. Qualche tendina rattoppata nascondeva i gradini e la pista. Al centro si innalzavano i pali con i trapezi. Dall’esterno si potevano vedere, senza pagare i volteggi degli acrobati. Attorno a questa miserabile costruzione, c’erano roulotte fatiscenti. Qualche animale triste passeggiava senza comprendere questo paesaggio di desolazione. L’orso, la zebra e il dromedario asciugavano le loro lacrime sotto un sole opprimente che bruciava questa Pampa urbana.”
Perché dunque decidere di cimentarsi nella messa in scena di uno dei testi più importanti dell’indimenticato attore, commediografo, compositore, poeta e scrittore napoletano? Quale tema potrebbe accomunare due esperienze di vita così diverse in relazione al circo e al testo scritto dallo stesso Viviani?
Attraverso gli occhi dei due protagonisti, Zenobia e il grande clown Samuele, magnificamente interpretati da Monica Nappo e da quella maschera perfetta che è Massimiliano Gallo, si dipanano dietro le quinte del circo gli intrecci amorosi e le passioni che travolgono i componenti di questa piccola comunità, sempre in bilico, sull’orlo dell’abisso, sempre in attesa di uno spettacolo che non ci sarà mai. Curiosamente nel suo testo, Viviani non ci mostra mai l’esibizione del circo, ma è la vita stessa che si fa spettacolo, tra pezzi cantati e intermezzi musicali, coadiuvati anche dalla scelta di Arias di affidare all’ottimo Mauro Gioia il ruolo di “presentatore” della serata. La vita, implacabile e vendicativa, punisce i due protagonisti, accecati dai loro eccessi. Zenobia, inizialmente, per il troppo amore mostrato nei riguardi del marito fedifrago Roberto, interpretato con convinzione da Francesco Di Leva: la sua bontà diventa una maschera accecante che le impedisce di vedere la crudeltà che la circonda. Lei viene punita a causa del suo eccesso di amore. Samuele, invece, commette un peccato d’amore eccessivo per le piroette: il clown cerca senza sosta di perfezionare i suoi numeri lasciando grande libertà a sua moglie, libertà che utilizzerà per tradirlo con il giovane Tony. Forse, sia Zenobia che Samuele conoscono il rischio che li minaccia, ma la bontà e la passione del circo li portano al di là dell’impietosa realtà. Una realtà che punisce chi da troppo. Zenobia e Samuele sono anche due facce della stessa medaglia: la terribile condizione dei due circensi è perfettamente paragonabile a quella dell’artista, nudo e privo di difese rispetto alla offese e agli scherni del mondo con la sua inesorabile ironia. Un tema estremamente attuale, che in questo momento storico coinvolge tutti, non solo chi si occupa e vive d’arte, che la messa in scena del regista non sembra restituire pienamente. “L’arte di far piangere” è affidata agli interpreti e alla tradizione che tengono in piedi un’operazione che a tratti non riesce a stare al passo con la profonda forza e il senso di dolore che marchiano a fuoco un testo come Circo equestre Sgueglia.
(Alessandro Di Ronza)
28/06/2013 13.06.57
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