Una bellissima intervista a Stefano Orfei Nones di 2 pagine su Il Fatto Quotidiano a firma di Alessandro Ferrucci. Sulla professione del circo e il rapporto con i genitori. Buona Lettura!
È un’altra dimensione, senza tempo; o un tempo fermo a una stagione della storia dove esistono gerarchie, regole, liturgie, scaramanzie, tradizioni, condivisione, tradizione orale, viaggi lenti, così lenti da poter distinguere dal finestrino un albero dopo l’altro; una dimensione di precarietà perenne e ricercata, e Stefano Orfei Nones, figlio di Walter Nones e Moira Orfei, è uno degli ultimi discendenti dell’arte circense. Da qualche anno è direttore del circo di famiglia, un’esistenza passata tra cavalli, tigri, zebre, la polvere, le polemiche con gli animalisti, i riflettori, i bambini, le fughe e la certezza di vivere dentro una famiglia molto più ampia del comune albero genealogico. Sua cognata, Benedicta Boccoli, lo definisce un “cavaliere del Medioevo”, e come un cavaliere antico non tradisce sentimenti neppure se parla delle persone che non ci sono più, di quando ha visto suo padre rischiare con un leone, o della tigre che lo ha aggredito e gravemente ferito.
Tratta la morte come la vita. E anche lui, per la prima volta in cinquanta e passa anni, si è fermato, ha dormito a casa (“ho imparato a passare l’aspirapolvere e cucinare”) e scoperto una dimensione comune.
Un Orfei Nones stanziale.
Al massimo abbiamo chiuso per le vacanze: tre settimane a giugno…
Poi basta.
L’unica altra volta di uno stop così prolungato è stato al tempo della guerra in Iran, con la Rivoluzione islamica.
E voi cosa c’entravate?
Nel settembre del 1977 siamo partiti da San Donà di Piave, destinazione Teheran: un viaggio in treno lungo 18 giorni, e composto da due carovane speciali con 70 vagoni, più cinque camion rimorchio.
Invitati da…
Lo Scià in persona, e il debutto è stato a Teheran; in oriente abbiamo lavorato fino a gennaio del 1978 e sbaglia chi crede che la Persia fosse un Paese arretrato: erano più avanti dell’Italia, con i centri commerciali, la televisione via cavo, la Cnn collegata, e mia zia che guardava Sentieri. Lì ho bevuto la prima lattina di 7Up e frequentato la scuola italiana.
Le interessava studiare?
Mica tanto; comunque dopo Teheran siamo andati sul Mar Caspio e sono iniziati i problemi: ci hanno bruciato i tendoni, sono morti due cavalli, è arrivata la polizia che ci ha avvertito: “Siete europei, quindi considerati nemici dagli integralisti”.
E voi?
I miei organizzarono un controllo notturno con tanto di torretta; (sorride) il paradosso era che il giorno la polizia manganellava le persone per il troppo caos alla biglietteria; la notte, sempre la polizia, ci proteggeva da chi ci voleva morti.
Perfetto.
Gli integralisti arrivarono a piazzare un ordigno sotto il camion dell’acqua convinti fosse pieno di benzina, e a lanciare una bomba contro il tendone.
Voi imperterriti…
Avevamo 1.800 spettatori a sera e mio padre andava avanti.
E lei?
Come lui.
Davanti a un problema a chi si rivolgeva?
Da piccolo a mamma, da adulto a papà.
Come mai?
Era un uomo distaccato, focalizzato sul lavoro e attento alle regole; (ci pensa) con mio figlio seguo la medesima strada.
Da bambino che regole aveva?
Non ho vissuto l’adolescenza, ho sempre studiato e lavorato; a 15 anni ho smesso con i libri e mi sono dedicato al circo.
Solo?
A 42 anni, grazie a Reality Circus, ho conosciuto Brigitta Boccoli, poi diventata mia moglie: i primi tempi, quando uscivamo con i suoi amici, sentivo parlare di “settimana bianca”. Zitto, annuivo. Dopo venti giorni ho ceduto e ho domandato: “Ma cos’è questa settimana bianca?”.
Mai in vacanza?
La prima volta, sempre a 42 anni, Brigitta mi ha portato al mare e lì ho scoperto la fobia per i granchi: un giorno ho chiamato l’inserviente perché me ne era entrato uno in camera.
La non adolescenza è un rimpianto?
No, sono cresciuto con delle regole.
Sì, quali?
Per i circensi niente fumo, niente alcool, niente droghe; oltre agli spettacoli giocavo a pallone, poi mi dedicavo al trapezio, lavoravo con i cavalli e assistevo tigri ed elefanti.
Torniamo all’Iran.
Ci spostiamo a Babol e tutti i giorni dei ragazzi ci tirano i sassi, fino a quando il capo della polizia dà l’allarme: “Ci sono circa mille persone che stanno arrivando per dare fuoco al circo: noi tentiamo di arginarli, ma se ci passano difendetevi come potete”.
Quindi?
Piazziamo la corrente elettrica intorno a noi, prepariamo i leoni e le tigri da scagliare contro, mentre noi bambini veniamo chiusi in un tir e a me consegnata un’accetta: “Se vedi una mano alla finestra, non pensare, taglia”.
E…
Alla fine ci fu un accordo: potevamo mettere in scena lo spettacolo, e subito dopo andare via; solo che due ragazzi decisero di lanciarci una bomba, ma a uno dei due gli scoppiò in mano.
Nient’altro?
Siamo rimasti per cinque mesi fermi a Teheran, sostenuti dall’ambasciata italiana; (cambia tono) in quel periodo, in Iran c’erano la rivoluzione e le fosse comuni, poi a ottobre mia mamma riuscì a tornare a casa e con lei mia sorella: appena in Italia cercò sponde e aiuti nella politica, ma Andreotti si rifiutò.
Soluzione?
Mamma tentò il suicidio, l’armatore Achille Lauro mandò una nave a prenderci, e lo Scià ci riconsegnò i passaporti prima di abbandonare il Paese.
Lo dice sorridendo…
Mamma era estrema in ogni manifestazione, conosceva alla perfezione la comunicazione.
Chi comandava in casa?
Mio padre era la sostanza, mamma l’immagine: si integravano alla grande.
Conosciuti, come?
In Kuwait sotto il tendone di Orlando Orfei; però mio padre era un circense atipico: fino ai 18 anni era andato a scuola dai Salesiani, legatissimo a loro, tanto da non tollerare parolacce, soprattutto le bestemmie; poi ha iniziato a lavorare con Wanda Osiris e con lei ha girato i più grandi teatri d’Europa.
Insomma, i suoi…
Incontrati nel 1959, sposati nel 1961 e nel 1963 hanno aperto il loro circo; però mamma era impegnata nel cinema, da lì i primi guadagni (gli brillano gli occhi).
Che succede?
Non avevano una lira, ma una pila di cambiali e alcuni compromessi: era impossibile acquistare una roulotte, così mamma viveva con la sorella, papà con il fratello; dopo qualche tempo, e grazie a un film, mamma ottiene una bella cifra e la invia a papà: “Compra un caravan”. Passano delle settimane e lei lo raggiunge al circo: “Dov ’è la nostra casa?”. Lui, zitto, la porta dagli elefanti e dai leoni: “Li ho investiti così”.
Lei da sempre in giro.
Potevo cambiare scuola ogni quattro giorni e tutte le volte che entravo in una classe nuova la maestra mi presentava e, sistematicamente, con il tono di voce da idea originale, proponeva un tema sul circo. Io scrivevo sempre lo stesso.
Com’era sua madre struccata?
Con i capelli lunghi, ancor più bella e la pelle perfetta: dai suoi vent ’anni aveva smesso di prendere il sole, e non c’è una foto di lei senza trucco e senza “cofana” in testa; se non era perfetta, non usciva.
Quanto impiegava per prepararsi?
Circa due ore.
Dei genitori impegnativi.
Non mi ha mai pesato, anzi è un motivo di orgoglio (sorride); al massimo mi sono agitato quando mio padre è stato aggredito da un leone. E io ero lì. E mio zio lo ha salvato.
Anche a lei è successo…
Premesso: gli animali per il circo possono nascere solo in cattività, devi crescerli da subito e quando ci sono aggressioni, la colpa è sempre nostra.
Cioè?
Quando crei un gruppo, e impieghi anni, non puoi inserire un elemento nuovo, non puoi alterare gli equilibri, e quella volta mio padre accolse un altro leone; il “vecchio” si vendicò.
Invece, lei?
Un errore da idiota: dopo 200 repliche ho cambiato il mantello, la tigre non mi ha riconosciuto e mi ha aggredito.
Quanti punti di sutura?
Nessuno, quei tagli non si possono ricucire, altrimenti viene l’infezione.
E non parliamo di graffi…
Mi ha aperto la testa, dalla fronte fino a dietro la nuca, e mi è saltata una parte di orecchio; poi mi ha ferito la mano, dietro la schiena (e alza la maglietta), e uno squarcio sulla coscia.
La tigre dopo se ne rende conto?
Zero, non percepisce, ed è tornata sulla moto con me.
La porta in moto?
Sul sidecar.
Se qualcuno la attacca, la difende?
No, l’elefante sì: la sera dell’aggressione, quando poi in pista sono entrati gli elefanti, quella che mi amava alla follia ha sentito l’odore del mio sangue e ha dato di matto; sono stato costretto a uscire dall’ospedale, in sedia a rotelle, per tranquillizzarla e farla mangiare.
Neanche qui ha avuto paura…
Forse non è chiaro, ma dopo l’Iran, e avevo 12 anni, nei primi anni Novanta siamo finiti in mezzo alla guerra in Jugoslavia.
Anche lì?
Nel 1991 il circo era a Belgrado e ci siamo rimasti diversi mesi perché non riuscivamo a uscire; ancora peggio in Croazia nel 1995: a Slavonski Brod, confine con la Bosnia, di notte arrivavano gli attacchi aerei; un giorno, per un tamponamento, mio cugino finisce in questura a Sisak, e mentre è lì vede la gente arrivare, prendere mitra e fucili, e andare via.
Siete fuggiti?
Immediatamente e il giorno dopo li hanno bombardati; il nostro agente sul posto era un tizio che poi abbiamo scoperto essere un boss della guerra, e la sua brigata si chiamava “Moira Orfei”. Lo hanno ucciso con un colpo alla nuca.
Ha mai detto: chi me lo fa fare?
Posso stare a Spalato, in Iran, a Teramo o a Roma, non cambia nulla: il circo è sempre lo stesso e per me conta solo riempire il tendone e la soddisfazione di render felice il pubblico.
I suoi l’hanno mai rimproverata di qualcosa?
Avevo troppo rispetto, non ho mai sgarrato: a 19 anni ho chiesto a mio padre se potevo uscire con una ragazza, c’era una festa; lui: “Meglio di no, chissà che gente c’è”. Ho obbedito.
Oltre il circo?
Solo il pallone, ho giocato nella Primavera del Genoa e dovevo finire in serie C1, ma ho rinunciato per un altro “no” dei miei.
Questo è un rimpianto.
Un po’ sì, ma ho portato avanti la nostra storia; mia moglie mi rimprovera perché secondo lei sono più in ansia se sta male uno dei miei animali che uno dei nostri figli.
È vero?
Sono cresciuto così: mio figlio ha la mamma, l’animale ha solo me.
Ha mai mangiato carne di cavallo?
Non ci penso proprio.
Scaramanzie?
Tutte le classiche.
Pregiudizi su di voi?
Spesso ci confondono con i Rom, e secondo la leggenda i circensi sono dei ladri acrobatici, in realtà chi lavora nel circo non muore di fame, non ha bisogno di rubare.
Quanto guadagna un circense?
Due o tremila euro, ma è spesato, vive nel circo, quindi mette tutto da parte; (sorride ) la gente ha da sempre un po’ paura di noi, ci considera pericolosi.
Un po’ lo siete?
È più la fama, ma siamo cresciuti per strada, conosciamo le regole, sappiamo difenderci ed è vero: alcuni circensi sono pericolosi, se provocati alzano le mani e sanno pure come.
Il suo cognome è Orfei Nones.
Nel 1986 tramite il presidente Sandro Pertini mi hanno cambiato il cognome e anteposto quello di mia madre.
Era d’accordo?
No, poi negli anni ho capito che avevano ragione i miei: per papà era più importante l’attenzione sullo spettacolo; (ci pensa) per l’ambiente circense sono il figlio di Walter Nones, per il pubblico sono il figlio di Moira Orfei o il marito di Brigitta Boccoli, e a scuola di mio figlio sono il papà di Manfredi.
C’è qualche componente della famiglia che non ha seguito la tradizione?
Nessuno.
Lei chi è?
Uno che ha sulle spalle una tradizione meravigliosa.
@ A_ Ferrucci
Da Il Fatto Quotidiano
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