Liana Orfei: “Diedi un ceffone a Tognazzi per quel suo bacio troppo osé”
Per Liana Orfei lo spettacolo più bello del mondo non smette mai di scendere in pista. Quell’arena del circo, dall’inconfondibile odore di sabbia e segatura mista all’afrore selvaggio dei leoni e al sudore ardimentoso dei trapezisti. The show must go on! Così, da 84 anni: l’età di Liana, donna senza tempo, sempre ammantata di fascino e bellezza. Ogni giorno una replica. Avvolta dall’eco degli applausi del pubblico.
Non meno forte, anche adesso che la standing ovation è solo un ologramma di ricordi.
Lei, la «regina del circo»; una corona che però tiene a condividere con la propria gente: «Un mondo meravigliosamente spettacolare in cui tutti sono re e regina». Ma circoscrivere l’esistenza di Liana Orfei nel perimetro del tendone circense sarebbe un errore.
La sua carriera ha spaziato infatti dai set del cinema alle tavole del teatro passando per la tv, sempre senza «reti di protezione»: pericolo che non poteva spaventare una ragazza con nelle vene sangue da funambola volante.
Ha girato il mondo freneticamente. Una trottola. Però senza mai perdere la testa. Mostrando coraggio da tigre, abituata com’era a stare in gabbia tra ruggiti ancestrali. Ma Liana da quei recinti di ferro ha sempre saputo – e voluto – evadere, affrontando nuove sfide umane e professionali. Sogni realizzati. Coerente coi suoi principi. Ma con la determinazione di chi ha la forza di allargare le sbarre, per passarci dentro. Costi quel che costi. Una vita di successi, resi forse ancora più belli dall’eredità di momenti duri, tristi, drammatici.
Liana ha sofferto la fame, è stata povera; poi ha conosciuto la ricchezza, lo sfarzo; è nata in un carro, ha abitato in regge. La ruota gira. Perché la vita (di tutti) è un circo con mille luci, che però possono spegnersi d’improvviso. E allora ti tocca sfidare il buio della notte confidando nei bagliori dell’alba. E forse non è un caso che la mamma di Liana si chiamasse proprio Alba. Il tutto racchiuso in un libro di memorie, Romanzo di vita vera (Ed. Baldini+Castoldi) che Liana Orfei ha scritto con la delicatezza di una lady d’altri tempi e l’incisività di una giovane influencer. Ricordi sì, ma che profumano di futuro.
Un’esistenza da fiaba cominciata con un incubo.
«È vero. Dai 4 ai 7 anni inchiodata al letto per una polmonite, curata erroneamente per tifo. Mi salvò un medico, si chiamava Fortunato».
Nome di buon augurio.
«E infatti mi strappò alla morte che in ospedale avevano già decretato. Riuscì a procurarsi una medicina rara e costosa che si chiamava Streptosil. E così guarii».
Un miracolo.
«Fu quello che disse mia madre, ringraziando Sant’Antonio. Ma suscitando la vivace reazione del dottor Fortunato…».
Cioè?
«Il dottore era ateo e quindi reagì: Ma quale grazia di Sant’Antonio, il merito è mio!».
Papà Paride e mamma Alba. La storia d’amore dei suoi genitori è romantica e travagliata come quella tra Renzo e Lucia ne «I Promessi Sposi».
«Con tanto di parroco alla don Abbondio, ma al contrario…».
«Al contrario»?
«Sì, perché lui fece in modo di favorire il matrimonio tra mamma e papà, non visto di buon occhio dalla famiglia di mia madre».
E perché?
«Mamma aveva origini nobili, mentre papà era un saltimbanco con un circo composto da un solo animale: il babbuino Toto».
Come si conobbero papà Paride e mamma Alba?
«Lui si esibiva in paese e mamma andò a vedere lo spettacolo. Fu amore a prima vista. Scapparono insieme. Il parroco convinse i genitori di mamma che nulla di male era stato commesso e così la coppia convolò a nozze. Una storia alla Romeo e Giulietta da cui nacquero tre figli, e chissà quanti ne sarebbero nati ancora se papà non fosse morto a 46 anni, lasciando mia madre vedova a soli 38».
Come ha fatto Liana e i suoi fratelli (Nando e Rinaldo) a trasformare il micro-circo di papà Paride in uno dei circhi più famosi e ammirati al mondo?
«Il segreto è stato la passione per il nostro lavoro. E la devozione verso il pubblico».
Lei e sua cugina Moira avete rappresentato per il circo un po’ quello che Coppi e Bartali sono stati per il ciclismo. C’è mai stata rivalità tra voi?
«No, eravamo diverse. Moira è diventata meritatamente un’icona del circo perché il circo ha rappresentato per lei un impegno quasi totalizzante. A un certo punto le nostre strade si sono divise. Io ho avuto un percorso più diversificato tra cinema, teatro e televisione. Con Moira ci eravamo riavvicinate negli ultimi anni. E la sua morte ha lasciato un gran vuoto».
Ci fu un’epoca in cui il Circo Orfei era una città viaggiante.
«Negli anni ’70 avevamo un tendone a tre piste, centinaia di animali, i migliori artisti del mondo lavoravano per noi. Giravamo il pianeta in lungo e in largo. E ovunque il successo era strepitoso».
Poi per il mondo circense cominciò un lento declino. Sempre più inesorabile. Ora dal Covid è arrivato il definitivo colpo mortale?
«Non sono d’accordo. Il circo non morirà mai e sopravviverà anche al Coronavirus. E sa perché?».
No.
«Il professor Mario Verdone (il padre di Carlo, ndr) sosteneva che il circo, in quanto espressione di spettacolo, è parte integrante del ciclo naturale dell’esistenza. I nostri antenati preistorici, riunendosi attorno al fuoco, dettero vita al primo circo dell’umanità».
In questo periodo di contagio i circhi non possono più lavorare. Chi sfama e si prende cura degli animali?
«Gli unici aiuti arrivano dalla gente comune e dalla Caritas. Dallo Stato italiano nessun ristoro».
Lei nell’immaginario è un’icona del circo, ma sui set ha lavorato con grandissimi attori e registi. Passiamoli in rassegna. Cominciamo da Marcello Mastroianni.
«Con lui ho girato la scena del bacio più lungo nella storia del cinema italiano. Quella storia fece scalpore. Anche a causa di una battuta che venne fraintesa».
Ci racconti.
«Marcello era considerato un sex symbol. Dopo quel bacio i giornalisti cominciarono a tempestarmi di domande: Ma cosa ha provato?, Ma come bacia Mastroianni?, È stato emozionante? e via con banalità di questo tipo. Al che io, infastidita, me ne uscii con una frase che scatenò il finimondo».
Quale frase?
«Baciare Mastroianni è stato come baciare un manifesto. Volevo dire che per un attore baciare sulla scena un collega è un fatto di routine e non comporta necessariamente un coinvolgimento emotivo. Il senso era chiaro, ma la frase fece comunque scalpore».
Più o meno come lo schiaffone che rifilò a Ugo Tognazzi, sempre per «colpa» di un bacio.
«Quella fu una vicenda tragicomica. Tognazzi sul set doveva darmi un bacio cinematografico. Ma, da latin lover impenitente qual era, si fece prendere dalla passione e andò un po’ troppo in profondità. Allora io reagii con una sonora sberla. Ugo, regista e troupe rimasero per un lunghi secondi in attonito silenzio, poi scoppiammo tutti a ridere».
Un bacio ci scappò anche con Renzo Arbore.
«Interpretavamo il ruolo di due innamorati per un fotoromanzo. A un certo punto la sceneggiatura del fumetto prevedeva un bacio finto. Lui si avvicinò a me e, molto timidamente, mi chiese: Cos’è un bacio finto? Io conosco solo i baci veri».
Ma è vero che Luchino Visconti una sera perse la testa per lei e si arrampicò sul balcone della sua camera da letto?
«Ero appena stata premiata con La Caravella d’oro e durante la cena di gala Visconti, uomo di grande fascino, mi aveva ricoperto di complimenti culminati in un abbraccio focoso con annesso tentativo di bacio. A quel punto lo spinsi con forza – da ex trapezista avevo delle braccia decisamente allenate – e mi rifugiai in camera».
Visconti si rassegnò al «due di picche»?
«Macché. Ancora agitata per quanto appena accaduto, aprii la porta del balcone. Era una sera meravigliosa con una luna enorme e un profumo di glicine nell’aria. Improvvisamente sento degli strani rumori e riconosco Visconti che si sta arrampicando sull’inferriata del mio balcone. Gli chiusi la finestra in faccia e scappai nella camera di una attrice mia amica dove trascorsi la notte. Luchino non l’ho più visto ma quell’episodio non l’ho mai dimenticato».
Il regista che ha segnato maggiormente la sua vita artistica è uno solo: Federico Fellini.
«Federico è stato un punto fermo non solo per la mia esperienza cinematografica, ma un maestro di vita. Era intimo amico di tutta la famiglia Orfei e con Giulietta Masina veniva a mangiare i tortellini fatti da mia nonna. Era anche lui amante del circo, evocato in molti dei suoi capolavori, e questo ha contribuito a tenerci sempre affettuosamente uniti».
Ma Alberto Sordi era davvero tirchio? Si narra di un bellissimo mazzo di rose che l’attore le fece pervenire, mettendolo però in conto alla produzione del film nel quale stavate lavorando insieme.
«Alberto era un uomo di cuore e generosità. A Montecarlo sono stata testimone di un episodio commuovente: c’era un bambino malato che necessitava di una costosa operazione negli Stati Uniti. I genitori non potevano economicamente permettersela. Intervenne Alberto e pagò tutto lui, imponendo che non fosse data nessuna pubblicità al suo gesto. Tutti sanno che non è stato l’unico atto di questo tipo».
E di Totò cosa ci dice?
«Ho conosciuto tanti veri nobili, ma mai un principe della signorilità come lui. Mi chiedeva sempre dei clown, era convinto che nel loro privato fossero persone profondamente tristi. Forse proiettava in loro un suo stato d’animo malinconico, come del resto ben dimostra la sua celebre poesia dedicata proprio ai clown».
Altro monumento: Eduardo De Filippo.
«Un genio. Mi insegnò a cantare in napoletano e non volle che fossi sostituita neppure quando mi ammalai gravemente alle corde vocali. Aspettò che guarissi, nonostante Domenico Modugno che era il produttore dello spettacolo insistesse per la mia sostituzione».
L’addio al cinema l’ha fatta soffrire?
«Ho ricevuto enormi soddisfazioni. Ma la più grande è stata quella di avere ottenuto consensi senza mai scendere a patti con la coscienza. Quando hanno cominciato a offrirmi parti inadeguate mi sono ritirata dalle scene per crescere mia figlia e non tradire il pubblico di bambini che al circo mi vedevano come una specie di fatina».
Lei nel corso degli ultimi 80 anni ha visto cambiare 4 papi ed è stata testimone di sconvolgimenti epocali che sono già nei libri di storia.
«Sono stata la prima volta in Cina quando in un’intera giornata in giro per Pechino contai solo quatto automobili circolanti. Erano tutti in bici e vestiti uguali. Sembrava un paese cristallizzato nell’arretratezza. Ci sono tornata di recente e ho visto la megalopoli tecnologicamente più sviluppata al mondo. Un’evoluzione costata a caro prezzo, e pagata anche col sangue di tante persone schiacciate dai carri armati nel massacro di piazza di Tienanmen».
Anche lei, in Africa, se la vide brutta.
«Fui catturata da una tribù cannibale e mi salvai grazie a due pacchetti di sigarette. Ma questa è un’altra storia. Magari la scriverò nel prossimo libro».
Possibile titolo: The show must go on!
Da Il Giornale
Liana Orfei: “Diedi un ceffone a Tognazzi per quel suo bacio troppo osé”
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