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Tendoni smontati. Le vite sospese dei circensi italiani fermati dalla pandemia

 

Prima del lockdown ogni anno andavano in scena 15.598 spettacoli, 42 al giorno, l’11 per cento di tutti gli spettacoli teatrali del Paese. Adesso invece bisogna contenere le perdite: un duro colpo per un settore che negli ultimi anni aveva già perso 400mila spettatori

«Il Covid ha cambiato la nostra vita. Abbiamo dovuto cancellare tutti gli spettacoli e dallo scorso marzo siamo fermi qui a Roma. Eppure viaggiare è la nostra normalità. Pensi che nella casa che ho comprato ci ho dormito una volta sola». Rony Vassallo, insieme ai fratelli, guida il Circo Rony Roller. Addestra tigri e leoni. La sua famiglia è nel mondo circense dal 1830, «siamo arrivati alla sesta generazione».

Da nove mesi il circo non fa esibizioni ed è attendato in uno spiazzo su via Tiburtina, luogo dell’ultimo evento prima del lockdown. L’ironia della sorte vuole che dall’altra parte della strada ci siano gli studi televisivi di Maria De Filippi, dove lo show non si è mai interrotto. Oggi il camion della biglietteria ha le luci spente e gli avvolgibili abbassati. Incolonnato insieme agli altri trenta tir, accanto alle scuderie degli animali. Lo chapiteau, così si chiama il tendone circense, è stato smontato. «Ci metteva troppa tristezza vederlo vuoto», racconta Rony Vassallo a Linkiesta.

Il Rony Roller ha una tribuna da 1.600 posti, 70 dipendenti e una cinquantina di animali tra cavalli, lama, leoni e cammelli. Ognuno ha la sua dieta. Un leone mangia sette chili di carne al giorno. Cavalli, cammelli e asini consumano quattro quintali di biada, a cui bisogna aggiungere frutta, verdura e mangime. «Senza contare i tre veterinari che ovviamente continuiamo a pagare».

All’inizio del primo lockdown la Protezione Civile ha portato un carico di fieno, «poi non abbiamo più ricevuto nulla, a parte l’affetto delle persone». Oggi sul piazzale si affacciano solo i volontari della Caritas. «Non mi vergogno a dire che in questi mesi ho fatto altri lavori, sono andato a verniciare e saldare cancelli», confida Rony Vassallo.

Il circo al tempo del Covid è un luogo pieno di malinconia e orgoglio. Da Brescia a Trani decine di compagnie sono rimaste bloccate, spesso senza risorse. In estate la maggior parte dei circhi non ha potuto riaprire, mentre in autunno l’ennesimo decreto ha fugato ogni dubbio, ribadendo lo stop agli spettacoli.

Niente pubblico né guadagni, ma le spese non si fermano. I circhi hanno in media cinquemila euro di costi settimanali, che arrivano a diecimila per le strutture più grandi. Ovunque sono partite iniziative di solidarietà grazie ad associazioni, agricoltori e parrocchie. Le preoccupazioni si concentrano sugli animali, oltre che sui lavoratori. «Ma anche in questo periodo mangia prima il leone del direttore del circo, è una regola non scritta, è sempre stato così e continuerà a esserlo», spiega a Linkiesta Antonio Buccioni, presidente dell’Ente Nazionale Circhi.

In Italia ci sono un centinaio di tendoni sotto i quali lavorano più di cinquemila persone. Con duemila animali: soprattutto cavalli (400) e zebre (50) ma anche giraffe e ippopotami. Sono stati più di 800 mila i biglietti staccati nel 2018, secondo gli ultimi dati Siae disponibili.

Prima della pandemia, ogni anno andavano in scena 15.598 spettacoli, 42 al giorno, l’11 per cento di tutti gli spettacoli teatrali che si svolgono in Italia. «Eppure – attacca Buccioni – una certa cultura non ci considera al pari degli altri artisti. Il nostro circo vanta una tradizione eccellente nel mondo e vince nelle competizioni internazionali. Acrobati, trapezisti, giocolieri. Ma in Italia sembra quasi che ce ne dobbiamo vergognare».

Quella del circo è una comunità piccola e chiusa, in cui ci si sposa tra addetti ai lavori. Dinastie longeve e famiglie allargate. Mestieri che si tramandano, figli che cominciano ad allenarsi fin da piccoli con animali e trapezi. Oggi quel mondo deve fare i conti con una situazione drammatica: gli spettacoli saranno fermi anche a Natale. Eppure quello delle festività è il periodo più redditizio. «La chiave di lettura di tutta la stagione» riassume Buccioni.

Il mese di dicembre vale da solo più del 20 per cento dell’incasso annuo: un giro d’affari di circa 1,6 milioni di euro sugli 8,7 generati nel 2018, secondo gli ultimi dati disponibili.

«Saltando il Natale e considerando che la primavera è storicamente un momento morto per il circo, rischiamo di ricominciare a luglio», riflette Rony Vassallo. Una vita sospesa per i circensi, che denunciano la mancanza di aiuti da parte dello Stato. Finora sono arrivati 700 mila euro da dividere tra 100 circhi. Da marzo a oggi il Rony Roller ha ricevuto poco più di 9mila euro, «ma ogni mese ne paghiamo 3mila solo di contributi».

Chi può ha preso i soldi del Fondo Unico dello Spettacolo, che ai circhi riserva 1,5 per cento delle risorse totali, da condividere con i luna park. Si tratta di circa 1,5 milioni, da spartire tra 100 aziende. Troppo poco, rispetto ai ristori destinati agli altri lavoratori dello spettacolo.

Nessuno, prima del Covid, avrebbe pensato di fermarsi. «Abbiamo fatto gli spettacoli in mezzo a una guerra, come nel 1991 a Belgrado. Oggi invece combattiamo contro un nemico invisibile». Stefano Orfei Nones è il figlio di Moira Orfei, la regina del circo scomparsa nel 2015. Acrobata, trapezista, domatore di tigri, porta avanti la tradizione di famiglia.

Insieme alla moglie ha deciso di vendere all’asta la collezione di gioielli di Moira, per garantire la sopravvivenza degli spettacoli, quando ripartiranno. Al telefono con Linkiesta non nasconde la sua preoccupazione: «Siamo chiusi dal primo lockdown. Alcuni circhi hanno provato a riaprire in estate, ma con il limite dei 200 posti che era stato imposto diventava difficilissimo andare avanti. Le spese erano esorbitanti, perdevi meno soldi restando chiuso».

L’unico stop così prolungato è stato al tempo della guerra in Iran con la Rivoluzione Islamica. Era il 1977 e il circo Orfei debuttò a Teheran per volere dello Scià. «Siamo partiti da San Donà di Piave, un viaggio in treno lungo 18 giorni e composto da due carovane speciali con 70 vagoni, più cinque camion rimorchio». Un anno in Persia, con annesse disavventure.

«Nella città di Qazvin buttarono una bomba dentro il tendone durante lo spettacolo. Fortunatamente non ammazzò nessuno perché colpì l’ingresso di una tribuna. Così continuammo lo show, eravamo dei pazzi». Rocambolesca anche la partenza, dopo mesi di blocco. Una volta riconsegnati i passaporti, «l’armatore Achille Lauro ci mandò il transatlantico Silvia che caricò tutta la carovana per riportarci in Italia».

Pochi anni più tardi, nel 1984, il circo Orfei sbarcò in Libia, sotto il regno di Gheddafi. Una tournée di tre mesi e mezzo con tappe a Tripoli, Misurata, Bengasi e Sebha. «In quest’ultima città ci furono problemi con le tribù locali. Quando entravano per assistere allo spettacolo i componenti dei clan rivali restavano tranquilli, ma a ogni intervallo cominciavano gli scontri tra le fazioni. Così la polizia ci consigliò di eliminare l’intervallo».

Un altro mondo rispetto a quello di oggi, in cui le atmosfere felliniane lasciano il posto a coprifuoco e divieti di spostamento. In tempi di Covid, la disciplina circense aiuta, secondo Stefano Orfei Nones. «Nella mia vita sono sempre stato abituato al rispetto di regole ferree. Ci si allena tutti i giorni, non si beve, si dorme la notte. E si rispettano i tempi degli animali. Quest’estate non sono andato in discoteca, ma dalle mie tigri».

Già prima della pandemia, però, il settore non godeva di ottima salute. «Una volta, quando il circo arrivava in città, era festa. Negli ultimi dodici anni c’è stato un logoramento nel rapporto col pubblico», ammette il presidente dell’Ente Circhi Buccioni. Tra il 2011 e il 2018 gli spettacoli circensi hanno perso almeno 400 mila spettatori.

La crisi economica, il mondo che cambia ma anche le polemiche sullo sfruttamento degli animali in cattività. Diverse città hanno proibito l’accesso ai circhi con elefanti e tigri. Da ultimo il comune di Verona, che a fine ottobre ha varato un nuovo regolamento.

Le associazioni animaliste chiedono da tempo un provvedimento a livello nazionale. E l’opinione pubblica sembra sempre più schierata: secondo un rapporto Eurispes del 2016 il 71 per cento degli italiani è contrario al circo con gli animali.

Da anni il Parlamento si interroga sulla questione, senza mai arrivare al punto. A gennaio la Commissione Cultura del Senato aveva approvato una risoluzione che impegnava il governo a valutare la possibilità di togliere le bestie dai tendoni. Sono molti i Paesi europei ad aver già vietato o limitato l’uso di animali selvaggi: a settembre lo ha fatto anche la Francia, annunciando un percorso di riconversione delle attività circensi.

Chi vive nel circo respinge ogni accusa sui maltrattamenti. «I tempi sono cambiati, non ci sono più costrizioni né addestramenti contro natura. Se un animale non vuole fare un numero, non lo fa e basta. Sarebbe rischioso il contrario. Io lavoro con i leoni, ho costruito un rapporto di fiducia partendo dal gioco. Dormono davanti al mio caravan, diventano parte della nostra vita», spiega Rony Vassallo mentre accarezza le belve. Il collega Stefano Orfei va oltre: «Io sono il padre dei miei figli e delle mie tigri. La prima cosa che vorrei fare quando riaprirà il circo è presentare un numero insieme a mio figlio di 12 anni. Lui lavora con cavalli ed elefanti da quando ne aveva cinque».

In attesa di tempi migliori, gli atleti continuano ad allenarsi. Al circo Rony Roller si verniciano i camion e si aggiustano le tribune «come se dovessimo riaprire domani». Rony Vassallo sorride, si ostina a vedere la luce in fondo al tunnel. «La speranza è l’essenza del circo. Ci serve quando arriviamo in una città nuova e non sappiamo come andrà, oppure quando sperimentiamo un nuovo spettacolo. La nostra vita è appesa alla speranza. Così anche oggi, pur non sapendo quando ripartiremo».

Di Marco Fattorini
Da Linkiesta.it

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