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APRE IL MUSEO DEGLI ORSANTI

APRE IL MUSEO DEGLI ORSANTI

Ecco un museo che avrebbe mandato in estasi Dino Buzzati, autore della Famosa invasione degli Orsi in Sicilia, perché esso ci racconta un mondo oscillante tra amara realtà e sognante fantasia, proprio come le storie oniriche e malinconiche narrate dallo scrittore bellunese. E sembrano davvero uscire dalle sue pagine gli «orsanti», poetici personaggi un po’  filosofi un po’  miserabili, un po’  guitti un po’ ciarlatani, che giravano il mondo con qualche orso al guinzaglio allo scopo di strappare esclamazioni di stupore e un obolo a vecchi e bambini, paghi di quell’esistenza libera da regole e obblighi di sorta. Un mondo dal fascino romantico, quello dei domatori di orsi, che ha colpito la fantasia di un’artista e stilista come Maria Teresa Alpi. È stata lei a mettere insieme, cimelio dopo cimelio, il materiale confluito nel piccolo ma originalissimo Museo degli Orsanti, allestito nel 2002 a Compiano (Parma), all’interno della chiesa sconsacrata di San Rocco. Attraverso i reperti raccolti o ricostruiti con pazienza e dedizione dalla signora Alpi – fotografie, fruste, museruole, carretti, lettere e manifesti, animali imbalsamati o di cartapesta, – questo borgo nel cuore della Val di Taro ha potuto così rivivere un capitolo del suo passato che, sebbene ormai sbiadito nel ricordo, non è stato del tutto dimenticato dai suoi abitanti. Un paese che all’anima contadina e pastorale che lo accomuna ai borghi circostanti ha unito una vocazione per lo spettacolo di strada e per l’arte circense, e soprattutto il gusto per la vita girovaga e avventurosa, per la libertà e l’ignoto. Non c’è anziano, a Compiano, che non abbia avuto un nonno o un bisnonno maestro nell’arte di ammansire le fiere e perseguitato dall’ossessione di girare il mondo in cerca di fortuna, Con arte e con inganno, per usare l’espressione che dà il titolo al saggio in cui lo storico Marco Porcella indaga il fenomeno dell’emigrazione girovaga nell’Appennino ligure-emiliano, di cui gli orsanti non furono gli unici protagonisti. Alla ricerca di un benessere che la loro povera terra non era in grado di offrire, gli abitanti dell’estremo Appennino settentrionale non si limitarono a percorrere in lungo e in largo la Penisola, ma varcarono le Alpi raggiungendo Inghilterra, Germania, Francia, Scandinavia, Russia, Turchia. Per lo più erano venditori ambulanti, musicanti, burattinai e commedianti, ma tra loro c’era anche qualche piccolo truffatore – i cosiddetti «birbanti» – che speculando sulla credulità della povera gente si fingeva santo, prete o mago per spacciare false reliquie o pozioni miracolose. Nessuno sa dire con precisione come sia nato, tra questi girovaghi, l’uso di portare con sé bestie rare e animali addestrati, anche se c’è chi pensa che fosse un espediente per dimostrare di avere una professione, aggirando così il divieto allora vigente di accattonaggio. Fatto sta che sin dall’Ottocento la fama di Compiano quale patria indiscussa dei domatori di orsi, oltre che di cammelli e scimmie, era già diffusa in tutta l’Europa, trasportata dal vento come la musica degli organetti di Barberia, delle trombe e delle fisarmoniche con i quali gli orsanti accompagnavano i loro spettacoli. Non sappiamo chi sia stato il primo coraggioso che diede l’esempio, riducendo ai suoi voleri uno degli orsi che un tempo vivevano nelle montagne intorno a Compiano, ma sappiamo quale fosse la formazione tipo delle compagnie di orsanti. Generalmente esse erano costituite da cinque uomini e cinque animali: un orso, un cammello e tre scimmiette, guidate rispettivamente da un orsante, un cammellante e uno scimmiante c’era poi un padrone che, oltre a finanziare l’impresa, presentava al pubblico i vari «numeri», e un questuante che aveva il compito di raccogliere le offerte. «Girovagando per tutto il Continente – scrive Arturo Curà nel libro Orsanti (Silva Editore) – avevano finito per somigliare agli zingari di cui avevano assunto l’aspetto pittoresco, il comportamento sfrontato, il linguaggio buono per ogni contrada, loro, analfabeti nella quasi totalità». E altrove lo scrittore parmigiano, che al mondo degli orsanti ha dedicato alcuni racconti, aggiunge: «Di bello questa gente aveva la capacità di conoscersi al fiuto, annusandosi come animali. Il sentirsi diversi dagli altri li univa fino a considerarsi padri e figli e fratelli, liberi sulle strade, speciali viandanti smemorati e fieri sotto le lune d’Europa». Attenzione, però: a vedere gli oggetti esposti in questo museo allegro e colorato, e i cammelli, gli orsi e le scimmiette impagliate con tanto di giubba e cappellino di panno rossi, che tanto ricordano la scimmietta sempre al fianco di Remì in uno storico cartone animato, si rischia di ingannarsi. La vita degli orsanti non era certo rose e fiori, e il loro peregrinare di città in città, alle prese con gente di ogni razza e lingua, fra strade sconnesse e briganti in agguato a ogni crocevia, con il cielo come coperta e la terra per materasso, non era esattamente un Grand Tour. Spesso, poi, nel paese di partenza c’era una famiglia affamata ad aspettare trepidante il ritorno dell’orsante, e se gli affari non fossero andati bene, non ci sarebbe stato di che stare allegri, perché questo avrebbe significato mandare in fumo il lavoro di anni passati ad addomesticare animali selvaggi e gli ingenti capitali spesi per farli venire da contrade talmente lontane che non se ne conosceva nemmeno la posizione sull’atlante. Gli orsanti, infatti, non erano solo artisti di strada, ma imprenditori dotati di uno spiccato senso degli affari e senza paura del rischio: come quell’Antonio Barnabò detto «Togno», che un bel giorno dell’Ottocento, dopo aver sentito dire che in Crimea si potevano acquistare cammelli a prezzi convenienti, partì per la penisola ucraina armato del proprio spirito d’intraprendenza e dei risparmi di una vita. Il risultato fu che in pochi anni creò un fiorente commercio di cammelli e un gruppo di compagnie girovaghe che ben presto conquistarono il monopolio del mercato europeo, fino a confluire nel Circo Barnabò, le cui locandine, scritte nelle lingue più svariate, sono ora esposte nel museo di Compiano. Il mestiere dell’orsante tramontò nei primi decenni del Novecento, per via della Grande Guerra che mise a ferro e fuoco l’Europa e quindi per la comparsa di nuovi e più redditizi mestieri ambulanti, come quello di gelataio, venditore di pesce, patatine fritte o caldarroste. La memoria di quegli uomini singolari, però, non smette di affascinare tutti coloro che, almeno una volta nella vita, abbiano sognato d’imitarli, abbandonandosi a quell’istinto anarchico e vagabondo che alberga in ogni cuore umano.

Da Il Giornale di Brescia

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